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Alla fine del XX secolo sono
entrate in crisi le ideologie su cui si erano fondati due dogmi fondamentali
intorno alla dottrina giuridica tra il XVIII e XIX secolo e che avevano
costruito il sistema delle codificazioni nell'Europa continentale: il
primo era il dogma della identificazione del diritto con lo Stato nazionale,
il secondo era il dogma della proprietà come diritto assoluto privato
o pubblico.
Dal primo dogma derivavano
la svalutazione della consuetudine come fonte del diritto e la subordinazione
al diritto dello Stato; dal secondo dogma derivava il numero chiuso
dei diritti reali e la emarginazione della proprietà collettiva, non
più riconosciuta come tertium genus tra le due forme riconosciute,
privata e pubblica, di proprietà, ambedue individuali, sia la
proprietà privata (di cui sono titolari il singolo, la comunione pro-indiviso
e le società) sia la proprietà pubblica (appartenenti alla Stato o ad
altro ente pubblico).
L'iniziativa di Pietro Nervi
per la ripresa dell'Archivio Scialoja e Bolla, attraverso una
nuova Rivista di studio della proprietà collettiva, coglie il momento
di questo passaggio storico. L'Archivio "Vittorio Scialoja"
per le consuetudini giuridiche agrarie e le tradizioni popolari italiane
nacque nel 1934, a Firenze, come pubblicazione semestrale sotto la pressione
del Bolla che già dieci anni prima, in un intervento presso l'Accademia
dei Georgofili, proponeva la raccolta nazionale delle consuetudini agrarie,
richiamandosi a Cujacio (Ad lg, 6 Dig. 1-3): Quid consuetudo? Lex
non scripta. Quid lex? Consuetudo scripta.
Il Bolla, quando scriveva
il suo contributo pubblicato sul primo numero dell'Archivio Vittorio
Scialoja, era consapevole di andare contro corrente rispetto al Codice
Napoleone e alle legislazioni che lo presero a modello. Non vi si teneva
conto "delle consuetudini agrarie e in particolare delle consuetudini
che regolavano la proprietà collettiva", così come Josserand (Essai
sur la proprieté collective) aveva già rilevato, scrivendo nel centenario
del Codice napoleonico. Nella sua battaglia contro il positivismo giuridico
estremo e il tentativo di abolizione indiscriminata degli usi civici
e della proprietà collettiva, il Bolla non mancava di dire che "l'ordinamento
giuridico della agricoltura è un prodotto storico il cui processo di
formazione è intimamente legato a fattori tecnici, economici e sociali
che si svolgono nel tempo e nello spazio con le vicende dell'industria
terriera, con le relazioni che vengono a costituirsi tra le classi cointeressate
alla produzione, con l'ente (gruppo economico o politico) che tutela
e promuove la politica fondiaria".
Quale studioso, quale avvocato
e ispiratore della cultura scientifica di diritto agrario, il Bolla
si pone in contrasto con la legge n.1766 del 1927, che non distingue
la proprietà collettiva dagli usi civici veri e propri, attraverso l'Osservatorio
di diritto agrario di Firenze, collegato con l'INEA di Roma nel decennio
del 1934-1943 e poi negli anni Cinquanta, con un respiro internazionale
attraverso l'Istituto di diritto agrario internazionale comparato.
Nella ripresa dell'Archivio
Scialoja-Bolla prendono evidenza il valore e il significato del collegamento
di questa esperienza, proseguita per oltre settanta anni, con l'esperienza
che, nel settore specifico dei demani civici e delle proprietà collettive,
ha, da alcuni decenni, condotto il Centro Studi e Documentazioni dell'Università
degli Studi di Trento, così come illustrato nel progetto editoriale
di Pietro Nervi.
Questa proprietà collettiva
esclusa anzi respinta, dopo il Codice napoleonico, dal Codice Civile
italiano del 1865 e poi da quello del 1942, ha continuato invece a sopravvivere,
regolata non dalla legge dello Stato ma dallo jus vivens presente
nelle comunità agricole, specie montane, già fino dal periodo romano
e medioevale e in ogni parte del mondo.
E' dunque un ordinamento,
quello della proprietà collettiva, che lo Stato, la Regione e la Comunità
europea non creano, ma riconoscono come già esistente e storicamente
regolato dalla comunità locale, secondo un principio che nostra Costituzione
del 1948 recepisce dalla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici.
La battaglia iniziata dalla
dottrina agrarista per sottrarre dalla soggezione alle leggi sugli usi
civici le comunità agricole, a partire da quelle dell'arco alpino, ha
avuto un suo primo riconoscimento con l'articolo 34 della legge 25/7/1952
n. 1991 che riconosce alle comunioni familiari vigenti sui territori
montani una loro autonomia; con l'articolo 10 legge 3/12/1971 n. 1102
quando fu confermata alle comunioni montane natura giuridica ben distinta
dagli usi civici e una disciplina dettata dai rispettivi statuti e dalle
preesistenti consuetudini. Passi in avanti sono stati compiuti con la
successiva legge sulla montagna 31/12/1994 n. 97 all'articolo 3 che
ha attribuito alle Regioni il potere di conferire a queste comunità
la qualifica di persone giuridiche di diritto privato.
Il riconoscimento pieno della
proprietà collettiva è tuttavia ancora ben lungi dall'essere compiuto
perché, come ha detto il Grossi, "la proprietà collettiva è un
ordinamento primario". Si tratta di comunità in cui lo scopo istituzionale
è preminente e va oltre l'interesse individuale dei singoli partecipanti
e, per questo sono inalienabili, inusucapibili, imprescrittibili. Si
tratta di una proprietà privata destinata ad una produzione di interesse
collettivo e cioè all'esercizio di un'impresa collettiva i cui risultati
comprendono non solo la generazione presente sul territorio ma anche
le generazioni future, tendendo a uno sviluppo rurale capace di accrescere,
oltre alla qualità dei prodotti, anche la qualità della vita, mediante
la produzione di beni e servizi e attività economiche extra agricole
sino a raggiungere la multifunzionalità dell'impresa.
Si comprende allora perché
la proprietà collettiva, anche se nasce da un ordinamento a base territoriale
e definito privato (e quindi non gestibile con gli strumenti e la burocrazia
della proprietà pubblica), non può essere identificata con una qualsiasi
proprietà privata.
Una Rivista di studi sulla
proprietà collettiva può nascere, quindi, solo sulla base di grandi
cambiamenti che impegnino alla elaborazione di principi fondamentali
sulle fonti del diritto e sulla concezione della proprietà, secondo
l'intuizione che già fu del Bolla: ciò richiede un metodo di studi interdisciplinari
tra diritto, economia, sociologia e tecnologia, allo scopo di raccogliere,
nell'ambito di un territorio precisamente delimitato, gli elementi e
le conoscenze necessarie per la vita delle comunità, intese come ordinamenti
giuridici e quindi produttive di norme adeguate alla proprietà-impresa
collettiva.
Giovanni Galloni
già Presidente
dell'Idaic
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